Dopo la bevuta inaspettata, mio padre tornò ai suoi giretti di routine fra il campo incolto, la strada, i cassonetti, poi di nuovo la strada, qualche graffio sui tronchi, un paio di pisolini sugli alberi, ancora la strada e così bighellonando fino a perdere intere giornate.
Era un tipo solitario ma diveniva un gran compagnone quando si trattava di bere o di fare le fusa a qualche bella gatta. In genere disdegnava la compagnia maschile salvo per le risse a cui partecipava ben volentieri. Come tutti i randagi maschi svolgeva le sue perlustrazioni da solo, anche se non di rado incrociava altri gatti sul suo percorso con i quali strusciava la coda, senza però scambiare miagolii.
Ero troppo nervoso per fare la prima pennichella mattutina, la migliore della giornata, e senza neanche accorgermene mi ritrovai a seguire mio padre in un uno dei suoi soliti giri.
Senonché mentre camminava spensierato vide in lontananza un altro perdigiorno come lui, lo puntò e, come da tradizione felina, strusciò la coda contro la sua. Le punte delle code si toccarono e si incrociarono, come se si trattasse – per voi umani – di una cordiale stretta di mano, poi si mossero sinuosamente a destra e a sinistra a mo’ di saluto, nel frattempo mi parse di udire l’impercettibile miagolio di mio padre ma ormai l’altro micio era troppo lontano per sentire la sua risposta.
Il martedì mattina il mio vecchio, tra i tanti vizi che con molta passione coltivava, era dedito a far la colazione al bar, cioè in un cassonetto posto in una stradina tranquilla, dove si trovava l’entrata secondaria di un bar, nella quale ogni settimana, dopo il lunedì di chiusura, i camerieri gettavano le rimanenze di cibo non più commestibili.
Pizzette, scarti di carne quasi fresca, pasta, focacce, insalata di polpo, cornetti al cioccolato, pezzi di formaggio morsicati, salumi ammuffiti erano solo alcune delle pietanze che il bar-cassonetto offriva. Una tale abbondanza, tra l’altro, non richiedeva lotte per accaparrarsi quel bendidio, rendendo il bar-cassonetto, ogni sette giorni, una piccola oasi di pace.
Il mio vecchio non conosceva i giorni della settimana però il suo stomaco, quando si trattava di mangiare, funzionava meglio di un calendario. Senza sapere che fosse martedì facemmo la nostra prima tappa proprio al bar-cassonetto, ma non trovammo l’allegra compagnia di gatti che solitamente affollava il santuario dei buongustai. A parte tre cani decrepiti non c’era nessuno.
Dov’erano finiti gli altri randagi? Mio padre non fu minimamente roso dal tarlo del dubbio e addentò, con molto appetito, una focaccina indurita col prosciutto e la mozzarella, io volevo farmi del male dunque mi buttai su un cornetto ammuffito al cioccolato. Se non lo sapeste la muffa, per noi gatti, è meno dannosa del cioccolato.
Il mio vecchio divorò avidamente tutto ciò che gli capitava sotto il naso, riempì il suo stomaco finché non assunse una protuberante forma sferica, dopodiché riprese la sua camminata. Ancora amareggiato per l’affronto dell’umano, lo seguii a testa bassa come un’ombra.
La seconda tappa fu una piccola pozza di acqua piovana, ricavata da una buca sull’asfalto, dove mio padre poté mandare giù qualche sorsetto di digestivo. La terza, la quarta e la quinta tappa furono nell’ordine, seguito senza alcun criterio, un albero dalla corteccia liscia dove affilammo i nostri artigli, uno scatolone capovolto, trovato per caso sul nostro percorso sconclusionato, sotto il quale stazionammo per una quantità indefinita di tempo – per quel che mi ricordo posso dire che fu tantissimo tempo – e un piccolo terreno incolto pieno di cacche di animali dove ci dilettammo nella caccia alla mosca.
Prendemmo la strada del ritorno col sole alto in cielo. Appena svoltammo l’angolo e ci immettemmo nella nostra strada fu subito palese che stava accadendo qualcosa di strano. Dal giardino della vecchia casa si udivano fusa smielate e miagolii suadenti: ecco dov’erano finiti tutti i randagi del quartiere!
Non potevo credere alle mie orecchie, l’orchestra di gatti suonava instancabile una dolce melodia di miagolii per attirare l’attenzione dell’umano.
Qualcuno aveva spifferato tutto e non ero stato di certo io a parlare.
Stupido gatto bianco, non potevi tenere per te quella bevuta, perché devi star sempre lì a vantarti con i tuoi a-mici?
Il piccolo bisbiglio a denti stretti di mio padre, si era trasformato dapprima in un mormorio, poi in una diceria, infine in un miagolio incontrollato e adesso il latte faceva gola a molti.
C’erano anche i gatti anziani che soltanto qualche giorno prima avevano vietato di avvicinarsi all’umano. Che venduti! Per un po’ di latte avrebbero dato via pure la coda.
Quel gran baccano non poteva passare inosservato, difatti qualcosa finalmente si mosse all’interno dell’abitazione. Un volto assonnato fece capolino dalla finestra e tanto bastò per far scappare metà dei gatti presenti mentre l’altra metà si dileguò non appena la chiave iniziò a girare nella toppa e la porta si aprì.
Io restai fermo al mio posto, poco distante dall’uomo, all’ingresso del giardino. Scalzo, ancora in pigiama, teneva un cartone di latte in una mano e nell’altra una padella capiente. Iniziò a fare dei versi strani, forse per chiamarci, ma nessuno si avvicinava.
Che branco di matti! Tutta la mattina a cercar di richiamare la sua attenzione e adesso che è fuori cosa fanno? Scappano!
«Ehi piccoletto, scommetto che sei stato tu ad architettare tutto» – mi rivolse lo sguardo sorridendo, poi guardò il piattino vuoto e aggiunse – «Vedo che ti è piaciuto, vieni qui che te ne verso un altro po’».
Feci finta di non sentirlo e mi voltai da un’altra parte, lui perplesso si grattò la testa e ricominciò a fare quei versi strani, intanto l’erba del giardino e gli alberi al di fuori erano percorsi da un via vai di gatti irrequieti che sarebbero voluti uscire allo scoperto però, al tempo stesso, erano paralizzati dalla paura.
Si trattava pur sempre, nonostante il latte e le buone intenzioni, di un umano e loro rimanevano sempre dei randagi malfidenti.
Quella situazione sarebbe potuta andare avanti per tutta la giornata, se l’uomo non avesse preso una decisione risolutiva. Poggiò la padella a terra e versò il latte, non aspettavo altro! Tenendo la testa alta e il petto in fuori, mi avvicinai e con fare altezzoso immersi le zampine nel latte per mostrargli tutto il mio disprezzo, ma lui per tutta risposta scoppiò a ridere.
Era un osso duro e non voleva arrendersi all’evidenza rivoltante del suo latte, anzi mi sfidava.
«Piccoletto, non sai come si beve il latte? La tua mamma ancora non ti ha svezzato?».
Non ti azzardare a nominare la mia mamma! Gli soffiai con tutto il fiato che avevo in gola e, alzando la zampa, gli mostrai gli artigli per intimorirlo.
«Calmo, sta calmo…» – mi guardò quasi intenerito – «Sai? Sei tanto piccino quanto carino, ma hai veramente un bel caratteraccio!». Co
n gli occhi cercò gli altri gatti e riprovò a chiamarli con i suoi versi strani, ma ben presto prese atto che non funzionavano, quindi rientrò in casa dove si nascose dietro una tenda, per godersi lo spettacolo comodamente dalla finestra.
In effetti ciò che successe dopo fu un vero e proprio spettacolo. Rivedendolo con gli occhi di oggi ancor me ne vergogno.
Gatti di strada – Capitolo 5
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