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Gatti di strada – Capitolo 6

31 Marzo 2020 by panzino Lascia un commento

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Noi gatti ci chiamiamo tutti Miao. Non state ridendo? No? In effetti questa era sottile! L’umorismo felino è molto simile allo humor inglese ma, a differenza di esso, in ogni nostra piccola, sciocca, sia pur insignificante battuta, c’è sempre un fondo di verità.
Noi non abbiamo bisogno di un nome per esistere o per avere un’identità, voi umani invece lo date ad ogni cosa, altrimenti essa non esiste. Tutto ciò che riuscite anche solo ad immaginare viene denominato.
Un vezzo che portò con se l’umano fu per l’appunto quello dei nomi e ne scelse uno per ciascuno dei randagi in base alla caratteristica fisica che, secondo lui, era predominante.
Senza scervellarsi più di tanto snocciolò una serie di nomi che ci avrebbero segnato per il resto delle nostre vite.
Palla di Pelo era la gatta grigia dal pelo morbidissimo e spumoso, Pallina differiva da lei semplicemente per la stazza più piccola e per il pelo grigio scuro. Codino era bianco, con un ciuffo grigio-tigrato sulla testa, dal muso schiacciato che gli conferiva un miagolio molto delicato quasi impercettibile, e doveva il suo nome alla coda mozzata in tre parti: la punta era rimasta nella trappola che gliel’aveva troncata, mentre la parte superiore si era rinsecchita e stava attaccata, non si sa come, alla parte inferiore ancora viva e vegeta. Il Guercio si era ferito l’occhio sinistro durante una lotta con un cane per il controllo del territorio. Da quando quest’ultimo aveva avuto la meglio il suo occhio sinistro era diventato soltanto un ornamento, ma malgrado ciò non si perdeva mai d’animo e vedeva sempre il lato positivo delle cose che, a quanto pare, era sempre il lato destro. Come se non bastasse, aveva trovato l’utilizzo più adatto per quell’occhio altrimenti inutile: tenergli sotto perenne controllo il naso che diversamente avrebbe ficcato in qualche guaio. Il micio dal pelo pezzato nero e arancione, per la serie l’umano più fantasioso della zona, ebbe il nome di Pezzato.
Poi c’era lo Smilzo, il gatto a cui la natura aveva attribuito l’ultimo gradino della gerarchia sociale, costringendolo a mangiare soltanto quando gli altri gatti avevano terminato di banchettare, ossia quando il cibo era finito.
La gattina più graziosa venne chiamata Panzina per il suo irresistibile pancino rosa e rotondo.
La caratteristica di Baffo Bianco erano due elegantissimi baffi bianchi, arricciati all’insù, dipinti sul muso che insieme alla sua livrea blu gli conferivano il fascino di un Lord inglese.
Anche il gatto senza zampa ebbe diritto alla sua identità e non poté che essere chiamato Storpio, del resto era quella la sua caratteristica principale.
Non c’è bisogno che vi spieghi perché gli anziani Grigione, Nerino e Pel di Carota Raggrinzita ottennero proprio quei nomignoli e non altri.
Quando furono scelti i nomi non lo so con esattezza, ma son sicuro che l’umano si fece un’idea su di noi grossomodo veritiera già dal primo assalto alla padella.
Grigione e Pel di Carota Raggrinzita fiondarono per primi le loro lingue nel latte, trangugiandone quanto più possibile, fino a strozzarsi, e mormorando “mauhhmaaahmauhh” per segnalare che era meglio stare alla larga.
Nel frattempo Nerino controllava, soffiando e digrignando i denti, affinché gli altri randagi non si avvicinassero; dopo i due brigatti gli avrebbero ricambiato il favore.
Per quanto fossero anziani e ormai innocui quei tre furfanti incutevano timore in tutti i gatti più giovani. L’unico che avrebbe potuto tenergli testa, per via della sua istruzione e del suo fisico non ancora appassito, era mio padre che però, avendo già saziato la sua voglia di latte, non interveniva e anzi si gustava lo spettacolo dall’albero fuori dal giardino.
Non appena i tre vecchi ebbero bevuto a sazietà, e in disparte cominciarono a leccarsi il pelo partendo dal muso sporco e umido, si fecero avanti Baffo Bianco, Pezzato e il Guercio. Il primo intinse educatamente la lingua, una volta e poi un’altra, e subito, da vero gentlecat, lasciò il posto alla mia mamma; il secondo e il terzo ne avrebbero bevuto fino a farselo uscire dalle orecchie ma furono allontanati da Pel di Carota Raggrinzita, riavvicinatosi per cacciare lo Smilzo che quatto quatto, senza che nessuno se ne accorgesse, si era appropinquato pericolosamente alla padella. Quindi fu il turno delle gatte alle quali si unì anche lo Storpio; bevvero tranquillamente e per poco non si riempirono le pance.
“Ora tocca a me, ora tocca a me” ripeteva lo Smilzo con il suo miagolio stridulo, andando avanti e indietro nervosamente.
Aveva atteso impazientemente che tutti i randagi avessero saziato, chi più chi meno, la loro fame, tentando invano di avvicinarsi al gruppo. Quando toccò a lui, si precipitò famelico sulla padella e la spazzolò accuratamente con la lingua per rimuovere le microscopiche gocce di latte che avevano impregnato, così sembrava dalla solerzia con cui leccava la padella vuota, il metallo.
Dicendo a più riprese “Che bontà!”, si lavorò quell’arnese per un’ora o due fino a farsi venire le papule sulla lingua e una volta soddisfatto a suo modo l’appetito se ne andò via dal giardino con la pancia piena, di aria.

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Indice del romanzo

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