Gli unici ad avere avuto il privilegio di un nome umano fummo io e la mia mamma. Per lei fu scelto il nome di Elena, in memoria di una certa Elena di Troia per la quale due fazioni di umani in tempi lontani si scannarono come i cani.
L’umano era convinto – o presumo gli piacesse immaginare – che la bellezza di mia madre fosse tale da poter provocare una guerra tra i gatti pretendenti la sua zampa. Evidentemente non conosceva i gatti, per lo più randagi, la cui predilezione per il vivere e il lasciar vivere non li avrebbe di certo farti imbarcare in una inutile guerra sanguinosa e per giunta per una gatta. Magari un piccolo innocuo conflitto per un sorsettino d’acqua piovana ristagnante l’avrebbero pure fatto, ma per una gatta proprio no. Mica scemi!
La scelta del mio nome mi parse invece più difficile e meditata, o forse fu solo il caso a far propendere per un’opzione anziché per un’altra.
Dopo le prime diffidenze, Luigi si era rassegnato ad averci tra i piedi, anzi durante il giorno lasciava la porta socchiusa per permetterci di entrare e bivaccare nel suo salotto. A dire il vero, pochi randagi avevano il coraggio di varcare la soglia di casa, a meno che i morsi della fame non fossero stati così forti da spingerli a superare le loro paure pur di ottenere qualche misera leccornia.
Lo Smilzo si era piazzato in pianta stabile in quel soggiorno, dove riusciva a ottenere qualche secondo di vantaggio sugli altri gatti durante la distribuzione del cibo, quel tanto che bastava per riuscire a mettere qualcosa sotto i denti. E nonostante fosse rimasto sempre gracile e rinsecchito e le sue costole potessero contarsi con facilità, e malgrado quando si muovesse le articolazioni scricchiolassero come rami secchi che si spezzano, in pochi mesi aveva messo su qualche chiletto e il suo miagolio non sembrava più provenire dall’oltretomba.
Certo, il suo modo di fare era un po’ fastidioso anche per lo stesso Luigi. Lo Smilzo aveva infatti mangiato più in un mese che in tutta la sua vita e non sapeva più come dimostrare la sua riconoscenza al suo benefattore in carne e ossa. Le fusa e le strusciate non gli sembravano mai abbastanza, tanto che la sera doveva essere preso letteralmente a calci nel di dietro per essere cortesemente invogliato a uscire.
Luigi però non era il tipo da mettersi a battagliare con un gatto tanto caparbio quanto indisponente come lo Smilzo e bene presto si rassegnò ad averlo tra i piedi pure di notte. Comprò una cesta, dove ripose una coperta soffice, e la mise in un angolo. All’angolo opposto mise una lettiera. Tuttavia lo Smilzo preferiva dormire sul tappeto e fare i bisogni all’aperto di sera con l’aria fresca che gli pungeva il culo.
A frequentare il salotto all’ingresso c’era pure lo Storpio. Lì poteva dormire come un papa su un comodo divano sgualcito dal logorio del tempo, nel quale aveva formato una piccola conca che, con il passare delle settimane, stava assumendo sempre più le fattezze del suo corpo.
E chi lo smuoveva da lì? Neanche un terremoto avrebbe turbato il suo sonno: avrebbe alzato un sopracciglio, osservato a destra e a sinistra con la coda dell’occhio e resosi conto che il soffitto era crollato senza conseguenze per il suo divano, sarebbe ritornato al suo dolce riposo come se nulla fosse accaduto.
Lo ammetto, a volte lo Storpio mi faceva proprio incazzare. Chi avrebbe mai potuto immaginare il gatto che descriveva gli umani come mostri, cercar in tutti i modi di farsi coccolare proprio da un umano?
Mah, cominciavo a nutrire delle perplessità sulle effettive dinamiche dei suoi racconti, senza dubbio romanzati ma che avevo sempre ritenuto con un fondo di verità.
Forse era il solo modo che aveva di vendicarsi del torto subito, infatti quando meno se l’aspettava Luigi cadeva vittima di premeditati agguati rocamboleschi dove ad aver la peggio e a finir graffiate a sangue erano sempre le gambe dell’umano.
O, chissà, voleva soltanto rifarsi le unghia su qualcosa di pelle che non fosse il suo prezioso divano.
Io ero troppo curioso per starmene alla larga da una piccola miniera di sorprese e, sebbene all’inizio ero diffidente, mi ritrovai ben presto a non vedere l’ora che Luigi aprisse quella dannata porta per iniziare la mia giornaliera caccia al tesoro.
Gli altri gatti continuavano le loro vita all’aria aperta, senza però disdegnare il cibo che Luigi elargiva con tanta munificenza.
Grigione, Nerino e Pel di Carota Raggrinzita quando si ritrovavano all’Ippocastano spettegolavano sull’umano dicendo assurde cattiverie sul suo conto, ma quando si trattava di riempire le pance con il latte, gentilmente offerto dallo stesso umano, di cui poco prima il buon nome avevano infangato, erano sempre in prima fila a scazzottare con gli altri gatti.
Mio padre almeno era coerente. Non gli piaceva l’umano e non voleva averci nulla a che fare e stoicamente se ne stava in disparte, appollaiato sul ramo di un albero, a osservare quello che succedeva in giardino, anche quando il menu del giorno prevedeva latte per tutti in quantità industriale e senza badare a spese, con possibilità di fare il bis, il tris e – perché no? – pure la possibilità di sguazzarci dentro. Insomma una quantità di latte che avrebbe potuto sfamare tutte le generazioni di gatti vissute in quella terra per un intero mese.
Se un po’ di latte avanzava e nessuno era lì a guardarlo di certo mio padre non si tirava indietro. Aveva però la decenza di non parlare male dell’umano e la dignità di berlo soltanto quando il ronzio dello stomaco era udibile fino all’Ippocastano.
Se mio padre aveva una passione innata per le gatte, il Guercio per i guai e lo Smilzo per il cibo, Luigi ce l’aveva per la letteratura.
Il mio nome lo sentii pronunciare quando ridussi a brandelli uno dei libri ai quali Luigi teneva particolarmente: l’Inferno.“Dante nooo! Ti prego non toccare quel libro”. L’inferno di Dante, appunto.
Leggi anche il romanzo “Io sono un gatto”
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