Devo essere sin da subito sincero con voi: ero indeciso se raccontarvi la mia storia. Troppo sale sulle ferite e troppo dolore nel rievocarla. Ma qualcuno deve sapere cosa è successo negli sventurati anni della mia vita, affinché la mia memoria non vada perduta e possa essere di aiuto ai posteri. Sono nato nel lontano 2008. Era il mese di novembre ma non ricordo precisamente il giorno. Noi gatti randagi non festeggiamo il compleanno quindi è già abbastanza se ricordiamo il mese e l’anno. A dire il vero, i più tonti di noi – i gatti bianchi – non ricordano neanche il mese. La mia nascita fu uno di quegli eventi che, se non vi stessi raccontando la mia vita, nessuno ricorderebbe. L’impatto con il mondo fu abbastanza traumatico; vorrei vedere i vostri gatti domestici venire alla luce sul selciato sporco e impolverato, tra i miasmi di una fogna a cielo aperto che scarica a pochi passi dalla strada. Ciò che mi colpi di più fu la sporcizia e il panorama desolante che mi circondava. Com’ero ingenuo, solo dopo scoprii che la lordura più pericolosa per un gatto è quella nel cuore di alcuni umani. A memoria di gatto, mai nessuno è morto di sporcizia! Appiccicoso, imbrattato e con gli occhi chiusi, a prima vista non ero proprio un bello spettacolo. In realtà dopo le prime leccate della mia mammina iniziò a emergere tutto il mio fascino. Già all’età di due mesi ero la “preda” più ambita del quartiere. Il mio lucidissimo pelo color ossidiana mi donava – e mi dona tuttora nonostante la mia veneranda età – un’innata eleganza; zampe snelle e affusolate e una coda maestosa mi rendevano attraente anche agli occhi delle ragatte più attempate. A completare l’opera contribuiva un possente miagolio baritonale udibile a 100 metri di distanza. Per mia sfortuna non ebbi mai il tempo di dedicarmi alla nobile arte del corteggiamento. Ero completamente nero se non per qualche ciuffetto di pelo bianco che mi spuntava sotto la pancia. Tutto il contrario di mio padre. Un gattone il cui unico scopo era bighellonare tutto il giorno tra le viuzze della zona, bere acqua piovana ristagnante e impiastricciare il magnifico pelo bianco che lo ricopriva nelle continue liti che lo coinvolgevano. Se non avessi conosciuto la vita morigerata che conduceva mia madre, avrei giurato di non essere il figlio di mio padre. Dal canto suo mia madre avrebbe anche perdonato la vita dissennata che conduceva il suo consorte, ma non riusciva ad accettare le continue scappatelle con le “gattine di facili costumi “ – così le chiamava quella santa Gatta – che infangavano il suo buon Nome. Ricordo ancora la mia mamma, il suo pelo lunghissimo e morbido, i suoi tre colori e poi il suo latte. Che latte! Bianco con qualche tonalità di panna, zuccherato al punto giusto e molto nutriente. In tutta la mia vita non ho più bevuto un latte così buono. A dire il vero il latte che bevete voi umani mi fa, per dirla con un eufemismo, andare letteralmente in bagno. Alla mia nascita la relazione tra i miei genitori era finita da un pezzo. Avevano divorziato consensualmente dopo l’ennesima lite per l’ennesima scappatella di mio padre. Ebbene sì, anche i gatti divorziano ma a differenza di voi umani non serbano rancore e mantengono sempre discreti rapporti. Mio padre ci passava gli “alimenti” una volta al giorno, almeno ciò era quello che voleva farmi credere mia madre. Ma io non ho mai capito come quei brandelli di carne in decomposizione e quegli scarti di cibo potessero chiamarsi alimenti. In tutta onestà ce la metteva tutta e quelle poche mattine che uscii a far la spesa con lui, capii con quale entusiasmo raccattava il cibo. Andava solo nei migliori cassonetti della zona perché “per il cibo non bisogna mai badar a spese” – diceva orgoglioso arricciando la coda. Effettivamente spendeva tutto se stesso per battagliare, spesso con successo, con gli altri randagi della zona. I primi spiragli della crisi si avvertivano anche in Italia e bisognava faticare due volte di più per ottenere qualcosa da mettere sotto i denti. La gente buttava via meno cibo ma nonostante ciò il cassonetto restava la via meno faticosa per mangiare. Io avrei preferito un succoso topolino o una saporita lucertola ma mio padre non era più avvezzo alla caccia e poi era veramente convinto che il cibo dei cassonetti fosse una prelibatezza. Peccato che ormai avesse le papille gustative distrutte dall’acqua piovana ristagnante che beveva con gusto ad ogni ora del giorno. Fu durante quelle uscite con mio padre che capii quanto fossero stupidi i gatti bianchi. Il mio vecchio semplificava tutto e generalizzava; elaborava i suoi pensieri mentre camminava, poi si bloccava, guardava intorno per accertarsi che non ci fosse nessuno e con un miagolio simile a un bisbiglio buttava lì la sua massima. “Vedi figlio mio, i cani sono gli animali più stupidi del mondo. Non c’è dubbio che quelle sottospecie di lupi sono dei veri e propri cretini pieni di pulci!” – una piccola pausa poi continuava – “Le galline invece sono avide, non stupide”. Faceva altri due passi, si sedeva, leccava la zampa con la punta della lingua e la strofinava sui baffi, e con sguardo sornione iniziava a parlare di gatte. “Non fidarti mai delle gatte dal pelo corto. Sono frivole!”. Dopodiché, con un miagolio simile a un sospiro, elogiava le gatte tricolore dal pelo lungo “come tua madre, santa Gatta!”. Le massime di mio padre erano poco più di venti e venivano ripetute come un mantra durante le nostre discussioni, se così si potevano chiamare i suoi monologhi. In poche uscite avevo appreso tutto il pensiero del mio vecchio. Una visione della vita molto semplice, per certi versi arida ma rinfrescata dall’acqua piovana ristagnante. Il mio primo inverno lo passai al calduccio tra le zampe della mia mamma, godendomi il suo delizioso latte e integrando con le porcherie che ci portava mio padre. Spensierato, come soltanto un gattino può essere, in quei lunghi mesi freddi mi dedicai a ciò che mi riusciva meglio. Dormire.
Gatti di strada – Capitolo 1
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