A quattro mesi il mio mondo era composto da – in ordine di importanza – mia mamma, il suo latte, mio padre e il mio quartiere. Avevo perlustrato zampa a zampa tutta la mia zona per un’area di 350 metri quadrati ma, nonostante la mia spiccata curiosità e la mia innata perspicacia, non mi era chiaro dove mi trovassi precisamente. Avevo sentito da un amicio di mio padre che abitavamo in una importante città italiana.
Cosa fosse una città ancora non lo sapevo, ciò che mi appariva chiaro è che ci vivevano tanti gatti e qualche stupido cane, il cibo puzzava e cresceva in luoghi chiamati cassonetti e la strada principale era il posto più pericoloso per un gatto. Di umani neanche l’ombra.
Più avanti capii che ci trovavamo nell’estrema periferia di Torino, dove finisce la città e inizia la campagna. La nostra tana era sita nel giardino pieno di erbacce dell’ultima casa della città. Intorno a noi tanta terra incolta, qualche albero e in lontananza delle ciminiere sbuffavano fumo grigio e denso. La casa più vicina alla nostra distava qualche centinaio di metri, dopo la quale iniziava il mondo degli umani.
A pochi passi dalla nostra dimora, un vecchio ippocastano con le radici sporgenti emergeva sul terreno argilloso da una piccola concavità. Quest’ultima fungeva da recipiente e, dopo il tramonto, diveniva la meta di un continuo e rumoroso pellegrinaggio da parte dei gatti più vecchi. Era la migliore riserva di acqua piovana ristagnante della zona e per poter immergervi la lingua bisognava aver compiuto due anni.
Il possente albero con le sue accoglienti fronde proteggeva, sin da quando il primo gatto aveva messo zampa in quella pianura dimenticata da Dio, la preziosa bevanda dai raggi ultravioletti, permettendo ai batteri di prosperare e favorendo la giusta fermentazione di quel nettare dal tipico sapore ferroso che su noi gatti ha effetti simili a quelli che la grappa ha su voi umani.
Capite bene come un tesoro di siffatta importanza potesse scatenare continue lotte per il controllo e capirete altrettanto bene come le peggiori risse avvenissero dopo il controllo di esso. Prima e dopo le bevute era sempre un fiorir di graffi, soffi e morsi. Il durante invece era un momento quasi religioso, vissuto sera dopo sera come se si trattasse della prima volta.
Dopo aver annaffiato la gola, affilato e provato le unghie, storditi e barcollanti, i gatti più arditi organizzavano delle spericolate battute notturne di caccia al ratto, mentre quelli più pigri e scioperati si riunivano per discutere dei massimi sistemi, ovvero: gatte – sì, sempre loro! Anche i gatti hanno le loro gatte da pelare – e terribili racconti sugli umani. Non c’è bisogno che vi dica di quale gruppo mio padre fosse membro.
Da buon vispo e curiosone quale ero, andavo a origliare, se il tempo lo permetteva e la mamma dormiva, le discussioni dei grandi.
Il mio vecchio si atteggiava a grandissimo conoscitore della natura umana, in fondo era lui il più istruito fra quei randagi. Mia nonna lo aveva partorito in una fattoria e lì aveva appreso tutto quello che conosceva sui cani, le galline e gli esseri umani. Sapeva persino miagolare fino a dieci e camminare su due zampe per alcuni secondi. D’altronde aveva fatto di necessità virtù, infatti prodezze del genere gli erano sempre valse o una doppia razione di avanzi o qualche carezza veloce sulla testa.
Quando iniziava a raccontare una storia richiamava l’attenzione dei convenuti schiarendosi il miagolio, poi partiva con il suo lunghissimo soliloquio: un misto, tra il faceto e il borioso, di retorica spicciola su come gira il mondo, infarcito di massime sulla vita, condito con una riflessione sui costumi del tempo. Insomma una poltiglia indigesta e a tratti soporifera.
A risvegliarmi dal torpore erano i racconti del gatto senza zampa, emblema vivente della cattiveria umana. A ridurlo in quello stato e a condannarlo a una vita di stenti e di emarginazione era stato per l’appunto un uomo. Non seppi mai di preciso come quest’ultimo gli avesse tolto quell’arto vitale, posso solo dire che le sue storie sugli umani mi facevano rizzare tutti i peli della coda e inarcare la schiena in maniera del tutto innaturale.
Lunghissime pause, durante le quali si udivano chiaramente gli astanti deglutire, scandivano il ritmo della sua narrazione. Tra gli sguardi smarriti prendevano forma giganti che camminano su due zampe, teste sproporzionate rispetto ai corpi impacciati, esseri completamente glabri costretti a nascondere la loro vergognosa assenza di pelo sotto stranissimi pezzi di stoffa.
Il maggior pregio del gatto senza zampa era la capacità di inculcare nelle nostre menti ogni minimo particolare delle sue descrizioni. Egli infatti non raccontava, bensì proiettava immagini direttamente nelle nostre teste. Il suo amore per i dettagli avrebbe fatto invidia persino a un certosino.
Quando finiva la sua teatrale recita non un solo micio aveva il coraggio di fiatare. Nessuno aveva il diritto di rompere quella magia tetra che risvegliava in noi le più recondite paure ancestrali. Nessuno! Neanche mio padre.
Solo una sera, dopo un memorabile racconto, mio padre ruppe il silenzio lanciandosi in una lucida analisi sul male. Era chiaro che a parlare non fosse lui ma l’acqua piovana ristagnante che aveva in corpo.
“Il male fine a se stesso è banale. Gli esseri umani commettono atti malvagi utilizzando le zampe anteriori prensili come se volessero allontanare il loro gesto dalla testa e dal cuore, nel tentativo di renderlo normale. Essi dunque sono banali. Ebbene io vi dico che anche noi gatti facciamo del male con i nostri denti e le nostre zampe per soddisfare il nostro primario bisogno di cibo. Tuttavia noi ci muoviamo come equilibristi sul sottile filo intrecciato da Madre Natura. Il nostro fine è l’armonia… Questa è la differenza tra noi e loro.”
Sul momento non diedi peso a quelle parole e non mi resi conto che per la prima volta, dacché avessi memoria, il mio vecchio aveva fatto la prima vera riflessione sulla natura umana. L’unica degna di nota.
Gatti di strada – Capitolo 2
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Paola Teramo dice
Che storia avvincente ! Non mi stancheremo mai di leggere le storie dove sono protagonisti i nostri cari fratelli maggiori,come chiamo tutti gli animali del mio cuore ; loro che mi hanno consolato da bambina facendomi compagnia donandomi molto più di quanto sia stata capace di dare.
Grazie per questa lettura esilarante e dolce
Paola